Il 29 agosto di trent’anni addietro, nelle prime ore del mattino, Libero Grassi era appena uscito da casa per recarsi al lavoro, presso la sua fabbrica di pigiami e biancheria, quando venne affiancato da un killer di cosa nostra e colpito mortalmente.
L’omicidio freddo, brutale ma non inatteso, colpì con chirurgica precisione un uomo che era emerso con vigore dalla palude della Palermo produttiva e che era diventato il simbolo della resistenza e della dignità di una persona perbene che si opponeva alla umiliante pratica del “pizzo”, che era (allora come adesso) la più diffusa attività criminale delle famiglie mafiose imperanti in città ed in tutta l’Isola.
Nel corso delle indagini emerse con immediatezza sia la matrice mafiosa del delitto, sia la precisa responsabilità dei componenti della famiglia mafiosa che in quella zona di Palermo regnava incontrastata ormai da molti anni.
Già tre anni prima, presso la Procura della Repubblica di Palermo, erano state avviate approfondite indagini sulla endemica diffusione delle estorsioni mafiose in danno di tutti gli operatori economici cittadini. Le attività investigative erano state avviate a seguito del rinvenimento del c.d. “libro mastro” presso il covo ove trovava rifugio il latitante mafioso Antonino Madonia in Via Mariano D’Amelio, (strada che sarebbe divenuta, un anno dopo, tristemente nota perché teatro della strage nella quale trovarono la morte Paolo Borsellino e gli agenti di scorta Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina, Emanuela Loi ed Eddy Walter Cosina).
In quel documento erano puntigliosamente annotati i nominativi di circa 150 esercizi commerciali di varia natura e gli importi delle “rate” che i rispettivi titolari erano costretti a pagare mensilmente agli esattori mafiosi, nello stesso documento comparivano anche i nomi degli esattori camuffati dietro pseudonimi di facile interpretazione.
Ad eccezione di circa cinque o sei commercianti chiamati a testimoniare sulle estorsioni subite che ammisero di essere effettivamente vittime da molto tempo, nessuna delle numerosissime altre parti offese volle ammettere di avere ceduto al ricatto mafioso e di essere taglieggiata.
Per questa ragione, quando Libero Grassi tentò di ribellarsi al ricatto denunciando di avere subito delle telefonate estorsive da parte del sedicente “Geometra Anzalone” (una sorta di marchio di fabbrica degli estorsori della famiglia mafiosa di Resuttana), noi addetti ai lavori capimmo immediatamente che la presa di posizione del coraggioso imprenditore non soltanto era vera ma lo esponeva ad un rischio elevatissimo, perché la sua voce di denuncia, non solo presso i competenti uffici di polizia giudiziaria, ma anche mediante pubbliche prese di posizione sui giornali ed in televisione, era isolata e quindi lo rendeva particolarmente vulnerabile.
Ciò che colpì maggiormente, oltre alla efferatezza del delitto, fu il clima di diffidenza, indifferenza, scherno che era seguita alle pubbliche denunce di Grassi. Ricordo con chiarezza le espressioni sprezzanti di un notissimo imprenditore palermitano che rivestiva una importante carica nella associazione degli imprenditori cittadini che accusava Libero Grassi di avere sollevato un inutile polverone attorno al problema della pratica estorsiva diffusa (lo accusò esplicitamente di avere fatto una eccessiva “tammuriata”). Dunque Libero Grassi venne ucciso perché fu lasciato solo, dalla città, dai rappresentanti della sua stessa categoria di imprenditori, dai cittadini pavidi ma anche dalle istituzioni che avevano il dovere di proteggerlo a seguito di quelle pubbliche e circostanziate denunce. Avendo condotto in prima persona le indagini, fin dal momento del sopralluogo sul teatro dell’omicidio, ho potuto constatare direttamente la assoluta mancanza di professionalità da parte di esponenti istituzionali che non possedevano la necessaria preparazione culturale per far fronte ad un fenomeno grave, diffuso e dannoso come quello della presenza mafiosa in città. Quando venne chiesto perché Grassi non fosse stato protetto, si rispose che all’imprenditore era stata proposto di sottoporsi ad una scorta da parte delle forze dell’ordine ma che lui l’aveva rifiutata. L’organo istituzionalmente preposto a tutelare la sicurezza dei cittadini non “chiede” ad una persona se vuole la scorta, ma gliela impone!
Libero Grassi era uno spirito libero e quindi il suo rifiuto era perfettamente in linea con la sua personalità, ma probabilmente lui stesso non era nelle condizioni di valutare il grado elevatissimo di rischio a cui le sue denunce lo avevano esposto. Ma le Istituzioni della sicurezza dovrebbero servire anche a questo, cioè a valutare da un osservatorio privilegiato il grado effettivo di pericolo cui una persona è esposta di fronte ad un fenomeno criminale pericolosissimo, della cui aggressività il singolo potrebbe non avere piena consapevolezza.
Qualche anno dopo uno dei due killers di mafia venne arrestato ed iniziò a collaborare con la giustizia, ammise di avere fatto da autista a Salvatore Madonia che fu il killer che quella mattina del 29 agosto 1991, con sconcertante facilità tolse la vita a Libero Grassi. Nel corso del dibattimento del processo a carico del collaboratore Marco Favaloro e di Salvatore Madonia e del processo relativo a quanto era emerso dopo il rinvenimento del “Libro Mastro”, vennero fuori tutti i retroscena sconcertanti di questa vicenda palermitana.
Venne a galla la sconcertante indifferenza della classe imprenditoriale e di quasi tutti coloro che non vollero ammettere, neanche di fronte ad inoppugnabili documenti probatori, di avere ceduto alle richieste mafiose. Venne a galla che costoro non negavano le estorsioni per paura ma solo per quieto vivere, quindi, sostanzialmente per una sorta di connivenza culturale con i mafiosi, per una precisa scelta di campo. Venne a galla la inadeguatezza di una classe dirigente incapace di far fronte ad un fenomeno criminale noto, diffuso e destabilizzante come la mafia che aveva avvelenato le risorse sociali, economiche e culturali dell’Isola.
Dunque Libero Grassi è morto per due colpi di pistola ma è stato colpito anche dalla indifferenza, dal compromesso morale e dalla contiguità della così detta società civile palermitana.
Vittorio Teresi